Archivi categoria: Feste, tradizioni e manifestazioni folkloristiche

Descrizione delle feste, delle tradizioni, degli eventi e delle altre manifestazioni folkloristiche della storia di Firenze

Compagnia di San Frediano “della bruciata”

Fra le antiche confraternite di Firenze, che in grandissimo numero proliferarono nella città gigliata soprattutto in risposta alle terribili epidemie di peste (come quella del 1348) che periodicamente sconvolgevano la cristianità, c’è questa compagnia di Oltrarno che, insigne per essere una delle più antiche della città (viene fondata nel 1323), porta un nome curioso: questa congrega è infatti ricordata storicamente come Compagnia di San Frediano detta “della bruciata”.

Il curioso appellativo popolare le derivava dalla antica tradizione di regalare alla gente ed ai membri del sodalizio le tipiche castagne arrostite al fuoco dette appunto “bruciate”, in occasione della festa del santo patrono (che ricorre il 18 novembre).La distribuzione di castagne arrostite risale all’anno 1376, quando la Fraternità inizia questa pratica in adempimento dell’onere inserito nel testamento da Fra’ Giovanni Logi, che aveva lasciato erede la Compagnia di San Frediano alla sua morte, nel 1366.

Pietà di Jacopo del Sellaio per la Compagnia di San Frediano della Bruciata

La “Pietà” dipinta da Jacopo del Sellaio per la Compagnia di San Frediano della Bruciata. Conservato un tempo presso la Pinacoteca del Museo Statale di Berlino, il dipinto è andato distrutto nei bombardamenti subiti nel 1945 dalla città.

E’ all’incirca in tale periodo che il nome originario di “Compagnia dei Laudesi di San Frediano“, indicante una delle numerose confraternite contraddistinte dalla pratica devozionale di “cantare le laudi” (alla Madonna, al Santo Protettore etc.), muta nome in “Compagnia della Bruciata”.

La Compagnia aveva sede nella antica chiesa di San Frediano, ma non quella attuale in piazza del Cestello, che svetta sul Lungarno con la sua cupola imponente, bensì quella che si affacciava in piazza del Carmine e fu soppressa nel 1783. In effetti la Compagnia della Bruciata sopravvisse di poco alla antica San Frediano: l’istituzione, orfana della sede originaria, veniva soppressa a sua volta il 21 marzo 1785.

Questa istituzione raggiunse un certo grado di importanza e di floridità finanziaria, visto che fu committente di pregevoli opere d’arte: le cronache ci ricordano come la Compagnia di San Frediano potè permettersi di ingaggiare artisti del calibro di Jacopo del Sellaio e di Andrea della Robbia per adornare la cappella della Compagnia all’interno della chiesa di San Frediano. Il primo dipinse per la “Bruciata” una Pietà con San Frediano e San Girolamo, quadro commissionato l’8 febbraio 1483 ma rimasto incompiuto alla morte del pittore nel 1493 e completato soltanto nel 1517 dal figlio Arcangelo; il secondo eseguì fregi con serafini e cherubini in terracotta invetriata policroma (1501 e 1518). Sembra fra l’altro che il pittore Jacopo del Sellaio fosse a sua volta confratello della Compagnia.

Durante quasi mezzo millennnio di attività, i fratelli della Compagnia, che avevano “per istituto di esercitarsi in opere di pietà verso i vivi e i defunti e di sollevare i poveri della Cura di San Frediano”, solevano riunirsi ogni prima domenica del mese, oltre che in occasione delle feste solenni e, naturalmente, della festa patronale del 18 novembre, nel corso della quale avveniva l’ostensione della sacra reliquia del protettore, ovvero un dito di San Frediano.

La Compagnia della Bruciata aveva uno stemma che mostrava in campo argento una croce rossa, con ai lati le lettere “S” e “F” (iniziali di San Frediano), parimenti vermiglie.

Wine town: Firenze regina degli eventi sul vino

Gli antichissimi ed inscindibili legami fra Firenze e la cultura del vino, dal buon bere alla produzione enologica, sono evidenti a tutti: basta considerare che al territorio fiorentino è sempre appartenuta la maggior parte del Chianti, una delle zone di produzione più rinomate d’Italia. D’altra parte la quantità di proverbi sul vino, famiglie storiche che lo producono ed etichette a disposizione degli appassionati confermano che Firenze di vino se ne intende eccome. E non solo per la presenza in città di due fuoriclasse del vino di qualità come Antinori e Frescobaldi, famiglie di vinattieri da più di 25 generazioni.

Ribadito ciò che è evidente a ciascuno, voglio qui appuntare l’attenzione dei lettori su una curiosa circostanza, quella per cui Firenze, oltre che regina della produzione del vino, è probabilmente la città che in assoluto vanta in  Italia il maggior numero di eventi dedicati alle produzioni ed alle degustazioni enologiche. Mi riferisco qui ad eventi di alto livello, al netto cioè di sagre e feste paesane che, pure, sono anch’esse più numerose qui che altrove.

Wine Town alla Loggia del Grano

Un momento di Wine Town alla Loggia del Grano: sul cartellone si intravede il logo dell’evento

Firenze può quindi a ragione fregiarsi del titolo di “Città del vino“, almeno per quanto riguarda gli eventi dedicati ai consumatori ed agli appassionati. Probabilmente Vinitaly di Verona ed altri eventi sono più importanti fra le manifestazioni dedicate specificamente agli addetti del settore, ma è a Firenze che si svolge quello che è forse l’evento “retail”, cioè aperto a visitatori di tutti i tipi, del mestiere e non, più prestigioso in Italia. L’evento, con nome che non poteva essere più appropriato, si chiama per l’appunto “Wine Town”, per evidenziare come il complesso di manifestazioni, spettacoli e degustazioni previste nel suo ambito trasformino la città d’arte per antonomasia in una vera e propria “città del vino”.

Il prestigioso evento settembrino, che arriva quest’anno alla sua terza edizione, è dunque il più importante ma non certo il solo a Firenze. A riprova di quanto affermato, ecco una veloce carrellata dei soli eventi di maggiore richiamo che si svolgono in città oltre a Wine Town:

  • Florence Wine Event, una “tre giorni” giunta nel 2012 alla sua sesta edizione, che si tiene nella prima metà di giugno. L’evento si svolge nel cortile dell’Ammannati a Palazzo Pitti e si tratta di una manifestazione concepita per valorizzare al contempo le eccellenze del vino toscano ed i quartieri di Oltrarno
  • Divino Tuscany, che si tiene nella cornice del lussuoso Hotel “Villa Cora”, posto all’interno del parco del Bobolino, dura quattro giorni nel mese di maggio ed è giunta nel 2012 alla seconda edizione. Ideato da James Suckling, per anni prestigiosa firma di Wine Spectator, prevede una serie di seminari, cene di gala e degustazioni di etichette prestigiose
  • Olimpiade enologica, che si è svolta tra Firenze e Fiesole fino al 2009, anno della sua quinta edizione, con l’organizzazione di Slow Food
  • Wine & Fashion Florence, manifestazione ottobrina che era nel 2010 alla sua IX° edizione. WFF è l’evento che punta sull’abbinamento sinergico di due delle grandi eccellenze toscane e del made in Italy in generale, cioè vino e moda
  • Vignaioli & Vignerons, manifestazione che vede coinvolti 1000 vignaioli provenienti da 20 paesi produttori in Europa, in cui vengono organizzati convegni, laboratori, mostre, e degustazioni in varie zone della città.
Florence Wine Event 2012

Un momento di Florence Wine Event 2012: si vedono gli stand di degustazione allestiti nel piazzale di Palazzo Pitti

Se quanto detto finora non vi sembra abbastanza per incoronare Firenze “città del vino”, tenete presente che agli eventi enologici cult citati si aggiungono anche cicli di appuntamenti periodici legati al vino che si ripetono nel corso dell’anno (generalmente d’estate). A titolo esemplificativo, voglio ricordare almeno:

  1. God save the wine, la wine-night itinerante tra Firenze ed il resto della Toscana che propone degustazioni di grandi etichette di vini e bollicine nelle location di maggior prestigio della regione, come la terrazza dell’Hotel Baglioni
  2. Giardino del gusto, l’aperitivo a base di vini e champagne selezionati da Attilio Veninata, che si volge sulla terrazza di Villa il Salviatino tutti i giovedì estivi a partire dal 5 luglio

Firenze è dunque incontestabilmente, la città italiana che organizza il maggior numero di happening sul vino di caratura nazionale ed oltre. Non solo, quindi, regina dell’arte e della cultura, ma anche “città del vino”.

L festa della Rificolona:lanternine di carta per la Nascita della Madonna

La tradizionale lanternina di carta detta "Rificolona"

La tradizionale lanternina di carta detta “Rificolona”: la luce è prodotta da un candela fissata all’interno

La tradizione della “rificolona” nasce in concomitanza con una delle più importanti festività fiorentine legate alla figura della Vergine Maria, da lungo temp0 venerata in città nello splendido santuario officiato dai Padri Serviti, la Basilica della Santissima Annunziata, che sorge nella piazza omonima.

Mi riferisco alla tradizionale festa che si svolge in onore della Vergine Maria alla vigilia della festa che, nel calendario liturgic,o ne ricorda la nascita. La Nascita di Maria si festeggia l’8 di settembre, ed ecco quindi che la tradizonale festa, ovvero luminaria, in piazza della Santissima Annunziata, si svolge per l’appunto nella notte fra il 7 e l’8.

La scansione temporale degli eventi, legati alla ricorrenza della Nascita di Maria (festa della Rificolona nella notte, e fiera il giorno dopo) rammenta la tradizione del passato, quando i contadini, per sfruttare l’afflusso di gente in città in occasione della importante solennità, partivano per Firenze all’imbrunire della vigilia, per arrivare in tempo nel capoluogo dove avrebbero passato la notte in modo da essere già pronti il giorno seguente a vendere le proprie mercanzie.

Pare che proprio l’usanza di effettuare il tragitto dalla campagna alla città dopo il tramonto del sole, sia all’origine della nascita della famosissima lanternina di carta colorata con dentro la candela, che da secoli è vera e propria icona della festa. I contadini, viaggiando dopo il tramonto avevano infatti bisogno di una fonte di luce per illuminare il cammino verso Firenze: a questo scopo utilizzavano questo curioso lampioncino posto in cima  ad una canna. Il lampioncino di carta sembra servisse ad evitare il continuo spengimento della candela che stava all’interno. In pratica, si trattava di una vera e propria “lanterna”, seppure di carta.

Il termine “rificolona” ha un’etimologia alquanto ambigua, tanto che risulta ad oggi difficile risalire con precisione alla sua effettiva origine. C’è però un buon numero di interpretazioni verosimili che spiegano la denominazione di questa radicata tradizione fiorentina.

Momento della festa della Rificolona in Piazza Santissima Annunziata

Momento della festa della Rificolona in Piazza Santissima Annunziata

Una di quelle che mi sembra più accettabile è quella che fa derivare il termine per storpiatura dell’originario “fierucolona”: parola composta che abbina il sostantivo “fiera” con l’aggetivo “colona”, nel senso di fiera campagnola (lat. colona=campagnola). Sotto questo aspetto, risulta chiarita l’etimologia con riferimento al fatto che, la fiera per la Natività della Vergine, era fatta dai contadini e dai campagnoli che venivano in città a vendere le loro mercanzie.

Con una minima differenza, altri fanno discendere la parola “rificolona” da “fiericolòna”, termine col quale, in senso dispregiativo, sembra che i cittadini di Firenze chiamassero le campagnòle che scendevano in città per partecipare alla fiera. In questo caso “colòna” diviene sostantivo invece che aggettivo, e significa appunto “campagnola che partecipa alla fiera”. Pare che il dileggio di cui le contadine erano fatte segno con questa peculiare definizione, derivasse dal loro vestire, che le segnalava come irrimediabilmente sciatte agli occhi dei raffinati cittadini, dai loro portamenti goffi e, non ultimo, dai vistosi e floridi posteriori delle medesime, marchio di fabbrica delle donne di campagna che evidentemente avevano altro cui pensare che all’ossessione per l’estetica.

Considerata la traslazione della parola a favore della tradizionale lanternina, sarei forse più propenso a ritenere verosimile la prima ipotesi: nel secondo caso sarebbe infatti difficilmente spiegabile la migrazione semantica dalle donne di campagna ai lampioncini. Con ogni probabilità, il riferimento alle donne del contado quali “rificolone” è anch’esso il risultato di un’estensione dal nome della festa, proprio come nel caso delle lanterne di carta.

Da ultimo, mi corre quasi l’obbligo di rammentare che la famosissima lanternina di carta, la “rificolona” è protagonista di una altrettanto rinomata canzoncina popolare che si canta in occasione della festa omonima: immagino che quasi tutti i fiorentini conoscano almeno l’attacco che fa “Ona ona ona, ma che bella rificolona; e la mia la c’ha i fiocchi e la tua la c’ha i pidocchi…..”.

La Via Crucis a San Miniato al Monte

Veduta notturna della Basilica di San Miniato al Monte

Veduta notturna della Basilica di San Miniato al Monte

La Basilica di San Miniato al Monte è la chiesa che sorge nel punto più elevato di Firenze: la sua simbolica maggior vicinanza al cielo, assieme al singolare privilegio di possedere la Porta Santa, fa di questo luogo il sito della spiritualità fiorentina per antonomasia.

Come tutti gli anni parte alle ore 21.00 dal Piazzale della Basilica la rituale Via Crucis: quest’ anno, il venticello che stemperava la calura semi-estiva della sera del 6 aprile, rendeva particolarmente clemenente il clima, e limpida l’ aria. Nell’ aria tersa della sera si ammira prima di partire la grandiosa visione della città completamente illuminata, vista da questa posizione privilegiata che è di gran lunga superiore a quella che si gode dal Piazzale Michelangelo.

Il percorso, che si compone di undici stazioni, parte dopo che i monaci della comunità di San Miniato al Monte, vestiti nel loro saio bianco, hanno consegnato a ciascun partecipante una candela, che verrà buona più tardi. Ci sono 100/150 persone, di tutte le età, fra cui diverse coppie di ragazzi, probabilmente attratte, come me, dalla voglia di partecipare ad una cerimonia suggestiva e particolarmente coinvolgente, prima ancora che dalla devozione.

La Via Crucis di Henry Matisse

La Via Crucis di Henry Matisse, scelta dai Monaci di San Miniato al Monte come immagine della via Crucis del 2012

Il percorso si snoda dapprima lungo la discesa verso San Salvatore al Monte; dal lato della chiesa ci si sposta poi sulla facciata, quindi si discende il primo tratto della monumentale scalinata del Monte alle Croci; raggiunto il piano stradale, il drappello si muove verso il cuore di piazzale Michelangelo, fino a stazionare subito sotto la terrazza del caffè la Loggia, dove si trova l’ iscrizione in ricordo dell’ architetto Poggi, e la vasca adorna di tulipani rossi e bianchi a ricordare i colori dell’ arme di Firenze.

Dal Piazzale Michelangelo la processsione muove di nuovo alla volta della Basilica, sempre al seguito della Croce e di due porta-cero, che aprono il corteo. Ci si dirige così verso la base della scalinata monumentale che risale al piazzale della Basilica.

Prima di entrare nel recinto della Basilica, delimitato dalla cancellata in ferro, mancano ancora la decima e la undicesima stazione, che costituiscono il momento culminante della cerimonia. La decima stazione ha luogo sui primi gradini della scalinata: è in quel momento che, attingendo la fiamma ai ceri processionali, tutti i partecipanti accendono le candele che portano in mano. E’ il necessario preludio all’ ingresso nella Basilica immersa nella più completa tenebra. La piccola folla, nel più raccolto silenzio, fa ingresso nel buio della vasta basilica coi propri lumini, al seguito dei monaci che procedono salmodiando. Per chi non fosse pratico della ritualità del Venerdì Santo, il buio della Basilica rappresenta l’ oscurità del Sepolcro di Cristo, metafora della temporanea soggezione al trionfo della morte. I minuscoli lumi delle candele rappresentano la speranza nella Resurrezione, che deve avvenire dopo tre giorni.

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La volta dell' abside di San Miniato al Monte, che raffigura il Cristo Pantokrator

Il corteo di candele illuminate sfila lungo la navata centrale della chiesa fino all’ altare maggiore presso il quale è predisposto il catafalco drappeggiato del Cristo deposto, quindi accede alle scale di destra per salire nel presbiterio della chiesa. La undicesima ed ultima stazione avviene proprio nei pressi dell’ altare del presbiterio, sotto alla grandiosa cupola dell’ abside, in cui il mosaico dorato del Cristo Pantokrator riluce dei bagliori di cento e più candele.

La cerimonia si conclude con il celebrante che invita i presenti a spegnere tutte le candele: i partecipanti rimangono infine immersi nel buio e nel silenzio più profondi, partecipi devoti della sofferenza del Cristo nel Sepolcro, in attesa ancora di vincere la morte. La vittoria e resurrezione del Cristo, per converso, sarà infatti segnalata alla mezzanotte fra il sabato e la domenica, proprio con la riaccensione e benedizione del cero pasquale, che è figura del trionfo della Luce sul peccato e sulla morte.

Con l’ ausilio di una luce accesa sulle scale per evitare infortunii, la piccola folla di partecipanti sciama infine dalla chiesa in un’ atmosfera rarefatta che è parte devozione e parte desiderio di prolungare più a lungo la suggestione di una cerimonia di grande impatto emotivo.

La Piramide delle Cascine per far sorbetti e gelati

All’ interno del Parco della Cascine si vede, fra le innumerevoli altre curiosità, un edificio particolarmente bizzarro in questo contesto: una piccola piramide, alta non più di 10 metri alla sommità, che fa il paio, quanto ad inconsuetudine, con il Monumento all’ Indiano che si trova alla confluenza del Mugnone con l’ Arno.

La piramide delle Cascine cela al suo interno una ghiacciaia

La piramide delle Cascine cela al suo interno una ghiacciaia

Diversamente da quanto si potrebbe pensare, il piccolo edificio non ha niente a che fare nè con l’ Egitto, nè con sepolture di alcun tipo. Si tratta in realtà di una ghiacciaia: nel locale sottostante veniva raccolta durante l’ inverno una grande quantità di neve, che si conservava fino all’ estate per farne sorbetti e gelati, di cui sembra che i fiorentini fossero particolarmente golosi. Si racconta al proposito che il gelato sia stato introdotto in Francia proprio da una fiorentina, ovvero quella Caterina dei Medici, che sarebbe divenuta Regina e Reggente del regno.

La piramide delle Cascine non era naturalmente l’ unico impianto che serviva allo scopo: sin dall’ epoca rinascimentale esistevano infatti numerose “diacciaie” di forma solitamente conica, che venivano collocate nei fossati lungo le mura di cinta della città, in quei tratti che erano esposti ai venti freddi di nord-est. Ecco perchè si trovavano nei pressi di Porta al Prato, lungo la cinta che si dirigeva verso Porta San Gallo, quindi nel tratto tra questa e Porta a Pinti, e poi ancora nel tratto verso Porta alla Croce.

Incisione d' epoca raffigurante la piramide_ghiacciaia delle Cascine

Incisione d' epoca raffigurante la piramide-ghiacciaia delle Cascine

Si trattava di contenitori in muratura interrati nei fossati, ed avevano forma di doppio cono: la parte interrata era un cono rovesciato, sovrastato da un ulteriore cono di copertura con il vertice in alto. Sembra che questo tetto conico fosse fatto di paglia e legna per favorire l’ aerazione del contenitore.

Il motivo per cui mantenevano il freddo, oltre all’ esposizione ai venti di nord-est ed alla frescura procurata dalle cortine delle mura circostanti, stava quindi anche nella loro peculiare struttura, caratterizzata dai coni rovesciati che fuoriuscivano da terra per l’ altezza di un uomo. Si ha notizia che, prima della Legge Leopoldina del 1776 che aboliva gli appalti delle ghiacciaie ai privati, ogni appaltatore avesse l’ onere, durante gli inverni poco freddi, di riempire le “diacciaie” facendo venire neve e ghiaccio dall’ Appennino con i barrocci.

Si rammenta peraltro che le ghiacciaie servivano anche come precursori dei moderni frigoriferi: sotto il contenitore del ghiaccio o lateralmente, infatti, si praticavano fori e gallerie che avevano la funzione di consentire il refrigeramento di beni commestibili, quali carni, vini, frutta e così via. Particolarmente interessanti al proposito risultano le ghiacciaie del Giardino di Boboli, con calotta di forma emisferica, dissimulate dall’ ombra di una fitta vegetazione di alberi di alto fusto.

Il Palio dei navicelli in onore di San Jacopo

Il 25 luglio di ogni anno ricorre la festa di San Giacomo Maggiore Apostolo, che a Firenze viene detto San Jacopo ed al quale sono consacrate numerosissime chiese della città. In tale ricorrenza si teneva in città il tradizionale Palio de’ Navicelli, patronato per l’ appunto dalla Prioria della Chiesa di San Jacopo Soprarno.

Chiesa di San Jacopo Soprarno vista dalla riva opposta

Chiesa di San Jacopo Soprarno vista dalla riva opposta: al centro dell' immagine di vede la parte absidale della chiesa con i due inconfondibili finestroni a forma di conchiglia

E’ questa una bella chiesa che si trova sul Lungarno, attraversando Ponte Vecchio verso Palazzo Pitti e girando subito sulla destra: lì, a partire dalla cantonata sulla quale si vedono ancora gli avanzi dell’ antico Spedale del Santo Sepolcro appartenuto ai Templari, comincia quello che si chiama perciò “Borgo San Jacopo”.

L’ usanza antichissima di correre un Palio sull’ Arno coi navicelli sembra sorgere come imitazione delle naumachie degli antichi Romani, allo stesso modo in cui il Palio dei Cocchi, che si correva in Piazza Santa Maria Novella, altro non era se non una riproposizione della corsa delle bighe nel Circo Massimo.

Esisteva all’ uopo preso San Jacopo Soprarno una Cappellanìa, al cui cappellano incombeva l’ obbligo di pagare la spesa del Palio de’ Navicelli. Si trattava di un evento importantissimo a Firenze: basterà ricordare in proposito un bando del Magistrato dei Signori Otto di Guardia e Balia, in base al quale “navicelli o altri legni per passar l’ Arno, o per pescare, non si possono tenere fra le due pescaie d’ Arno, eccetto il giorno di San Jacopo per correre il solito Palio, sotto pena di vita, galera, fune, confini e [pene] pecuniarie ad arbitrio del Magistrato degli Otto, come per bando de’ 12 Agosto 1593 di detto Magistrato“.

I barchini usati nel Palio dei navicelli

I barchini usati nel Palio dei navicelli in una rievocazione storica della competizione

Il Palio veniva disputato da tipici barchini a pertica utilizzati dai renaioli (i cavatori di rena dell’ Arno), uno per ciascuno dei quattro quartieri, e si correva nello specchio d’ acqua che si trova fra Ponte Vecchio e la Pescaia Santa Rosa. Sembra che l’ idea di festeggiare la festività dell’ Apostolo con un Palio di Navicelli derivi dalla leggenda relativa alle reliquie del Santo decapitato: dopo il supplizio, le sue membra furono, secondo la leggenda, imbarcate nottetempo dai suoi discepoli su un navicello privo di vela e di timone (come quelli usati nel Palio) ed approdò quindi miracolosamente sulle coste della Galizia, dove il suo corpo fu sepolto nella località divenuta in seguito Santiago de Compostela, famosissimo luogo di pellegrinaggio.

La festa dell’ apostolo Giacomo del 25 luglio era impreziosita non solo dal Palio sull’ Arno, ma anche dall’ esposizione di una parte del cranio ed altre preziose reliquie del Santo Apostolo.

Il Carroccio di Firenze, e la Martinella di Por Santa Maria

Chi pensa che l’ abusato simbolo del Carroccio, diventato sinonimo in televisione del partito della Lega Nord, fosse appannaggio dei Comuni della Lombardia, dovrà invero ricredersi: non solo quasi tutti i liberi Comuni ne fecero uso, ma particolarmente a Firenze era allestito tutto un complesso apparato relativo al Carroccio nei casi in cui si decideva la guerra.

Ricostruzione moderna del Carroccio medioevale

Ricostruzione moderna del Carroccio medioevale

Una volta deliberato di muovere contro il nemico, il governo fiorentino era solito ordinare pubbliche preghiere, e veniva suonata notte e giorno la Martinella, che era una campana, detta anche Bellifera per il suo collegamento con gli eventi bellici, situata nell’ arco della Porta Santa Maria. Questa porta, che dà il nome all’ attuale via Por Santa Maria, chiudeva la prima cinta muraria di Firenze in direzione del Ponte Vecchio, e si trovava all’ altezza dell’ attuale Loggia del Mercato Nuovo (o del Porcellino).

Quando però l’ esercito fiorentino usciva in battaglia, la campana veniva issata su un carro sacro, il Carroccio. Era questo un carro dipinto tutto in rosso, tirato da una pariglia di buoi coperti di gualdrappe anch’ esse rosse, e recava oltre alla Martinella, un’ antenna sulla quale sventolavano gli stendardi della città.

Dato che trsportava le insegne della Repubblica, perdere il Carroccio in battaglia era giudicato un grandissimo disonore e, pertanto, venivano disposti a combattere attorno al carro sacro tutti i più valorosi guerrieri della città. L’ esercito che perdeva il Carroccio, peraltro, risultava perciò talmente demoralizzato da darsi per vinto.

Un cappellano celebrava la Messa su un altare che sorgeva sulla parte anteriore del Carro. Questo avanzava sempre in mezzo alle file dei combattenti, i quali prestavano orecchio ai trombettieri che, seduti sul retro dell’ altare, davano i segnali di assalto, di raccolta o di ritirata.

Pietra a forma di ruota a ricordo del Carroccio

Pietra a forma di ruota a ricordo del Carroccio: si trova al centro della Loggia di Mercato Nuovo ed è detta "Pietra dello Scandalo"

Si ha notizia dell’ uso del Carroccio a Firenze almeno dal 1230, quando l’ esercito fiorentino mosse alla volta di Siena con questo apparecchio. Il Carroccio fiorntino cadde nella mani dei Senesi nel corso della battaglia di Montaperti del 1260, e da quell’ epoca non lo sostituirono più con un altro.

Il Carroccio non serviva soltanto come porta-insegne della Republica nel corso di spedizioni militari: veniva utilizzato anche come come segno di distinzione per uscire incontro a personaggi di riguardo che visitavano Firenze.

La più ghiotta curiosità sul Carroccio è che questo carro si posava nel luogo dove successivamente venne eretto il Mercato Nuovo. In particolare, a ricordo dell’ esatto punto in cui si ricoverava, venne installato un lastrone rotondo di marmi bianchi e neri in forma di ruota, che si usava come luogo di pena dei falliti. Nel corso di una caratteristica cerimonia, questi venivano battuti a culo nudo sul lastrone, che prese per questo il nome di “pietra dello scandalo“.

La tradizione delle “Potenze festeggianti”

Emblema della Potenza festeggiante della "Città rossa" presso Sant' Ambrogio

Emblema della Potenza festeggiante della "Città rossa" presso Sant' Ambrogio

Le “Potenze festeggianti” erano compagnie rionali di popolo radunate sotto un capo, o uno stendardo, che, con divise loro proprie, organizzavano zuffe per la città, facendo a gara nel crear bailamme, ciascuna nel proprio quartiere oppure più insieme nei luoghi più frequentati della città, per giostrare o rappresentare qualche fatto.

Si trattava sostanzialmente di associazioni goliardiche il cui scopo era quello di organizzare manifestazioni e rappresentazioni in occasione di particolari festeggiamenti, che potevano coincidere con ricorrenze quali il Martedì Grasso o la festa del Battista, piuttosto che con un avvenimento legato alla vita politica della città (quale, in epoca medicea, il matrimonio del principe).

I nomi di ciascuna Potenza erano contraddistinti da appellativi fantasiosi ed altisonanti, inventati a capriccio o con riferimento all’ arte svolta o al luogo della loro residenza. Allo stesso modo, i capi di ciascuna compagnia si chiamavano di volta in volta “Re”, “Principe”, “Imperatore”, “Signore” e via dicendo. A titolo esemplificativo, riporto di seguito l’ elenco delle Potenze che risultano dal registro di Averardo de’ Medici, Commissario delle Bande, al tempo di Ferdinando I (suddivisi a seconda della genesi del nome):

(dal nome del luogo cui si riferivano)

L’ Imperatore del Prato

Il Canto a Monteloro

La Spiga, alla piazza del Grano

Que’ delle Convertite, al canto alla Cuculia

Que’ di Borgo San Frediano, al ponte alla Carraia

La Gatta, a San Pier Gattolino

(dal mestiere degli aderenti)

La Pecora, de’ Lanaioli

La Cornacchia, de’ Cartolai

Il Re de’ Batti, de’ battilani

I Cimatori, dalle farine

(per antonomasia)

Il Carroccio, in Mercato Nuovo (il Carroccio veniva allestito, in antico, sul luogo dove sorse successivamente il Mercato Nuovo)

Il Signor della Graticola, da San Lorenzo (dal supplizio con cui fu martirizzato il Santo)

Il Re del Covone da San Giovanni (dal mercato della paglia e del fieno che si esercitava presso il Canto alla Paglia)

Il Principe della Dovizia, in Mercato Vecchio (dalla Colonna della Dovizia eretta in Mercato Vecchio come buon auspicio ai commerci)

(nomi di fantasia)

La Città Rossa, di Sant’ Ambrogio

La Mela, in via Ghibellina

La Nespola, a Ponte Vecchio da Santa Felicita

Il Reame di Biliemme, dei tessitori di lana di San Barnaba

Il Re delle Macine

Il Re del Gallo

Il Re del Tribolo, in via de’ Servi

Il Re piccino, dal Canto del Giglio

La Corona, da San Pancrazio

La Rondine, da San Piero

Il Signor della Biscia, da Santo Stefano

L’ Olmo, i lavoratori da San Niccolò di là d’ Arno

La Colomba

Stando al racconto dello storico Scipione Ammirato, queste brigate furono introdotte dal Duca di Atene per guadagnarsi la plebe e distrarla dalle questione inerenti il governo della città, non diversamente dal panem et circenses che gli imperatori romani dispensavano al popolo perchè se ne stesse cheto.

Il Villani al contrario lo descrive come un uso molto antico, rammentando una Compagnia chiamata “dell’ Amore”, che si formò il giorno di San Giovanni del 1283 e nella quale intervennero mille giovani in Borgo Santa Felicita, tutti vestiti allo stesso modo.

Queste istituzioni dette Potenze Festeggianti durarono fino al 1600, dato che le varie combriccole si erano date a taglieggiare le botteghe, assalire i viaggiatori, ed organizzare pericolosi scontri: viene a proposito narrare un aneddoto relativo alle nozze della Principessa Eleonora con il Principe di Mantova, Don Vincenzo Gonzaga, nel 1582. Avendo infatti il Granduca Francesco I donato alle Potenze 800 scudi perchè organizzassero festeggiamenti e facessero a sassate in Via Larga, queste obbedirono a tal punto che dovette intervenire la Guardia dei Lanzi per evitare una strage enorme; e, cionostante, rimasero sul campo numerosi morti e feriti.

Lo sposalizio del nuovo vescovo con la Badessa di San Pier Maggiore

Stemma dell' Arcidiocesi di Firenze

Stemma dell' Arcidiocesi di Firenze sul cantone del Palazzo arcivescovile

La curiosità di oggi parla di una delle più interessanti e longeve tradizioni della Chiesa fiorentina, ossia lo Sposalizio rituale tra la badessa di San Pier Maggiore ed il nuovo vescovo: cerimonia che aveva luogo per l’ appunto in corrispondenza dell’ ingresso a Firenze del vescovo che prendeva possesso della diocesi gigliata.

Secondo il cerimoniale stabilito dalla Repubblica fiorentina nel 1385, i guardiani, o custodi, o vicedomini del vescovato e della chiesa fiorentina, si recavano alla porta della città, dalla quale doveva fare ingresso il vescovo vestito dei sacri paramenti, con corone di erbe in capo, guanti e bastoni. Si recavano ad ossequiare il nuovo arrivato i magistrati della città, il clero secolare e regolare con le rispettive croci, che venivano baciate dal vescovo.

Cominciava allora la processione, nella quale il vescovo cavalcava sotto un baldacchino, sorretto dai guardiani, mentre un canonico lo precedeva portando il pastorale. Giunto alla porta della Chiesa di San Pier Maggiore, il vescovo discendeva dalla sua cavalcatura e subito i guardiani saccheggiavano finimenti e sella del cavallo, il quale così spogliato restava in dono alla Badessa.

Il vescovo entrando in chiesa veniva incensato ed asperso d’ acqua benedetta dai sacerdoti e dal priore della medesima. Recatosi a pregare davanti all’ altare maggiore, veniva accompagnato ad un palco sul quale l’ attendevano la Badessa con le monache, ponendosi a sedere su un apposito trono, accanto alla Badessa, entrambe sotto un baldacchino di ricchissima tela d’ oro. Dopo questo insediamento la Badessa si prostrava innanzi al Vescovo che la faceva sedere alla sua destra, e seguiva la cerimonia dello Sposalizio rituale che significava quello del nuovo Pastore con la chiesa fiorentina.

Perciò il vescovo poneva un anello d’ oro con una gemma preziosa al dito della Badessa, la cui mano veniva sostenuta dai suoi parenti o dai pià anziani della parrocchia. Baciatagli la mano e ricevuta la benedizione, la badessa si ritirava quindi dalla parte del coro, dopodichè era il turno di tutte le monache di fare il medesimo.

Quindi il vescovo benediceva il popolo, pubblicava l’ indulgenza e passava a desinare in una stanza del contiguo monastero, con quattro canonici, il priore, i cappellani e la badessa, rimanendo ivi pure a dormire. La mattina seguente si recava presso Santa Reparata con le medesime formalità e qui si sedeva in trono a guisa di insediamento. Quindi i guardiani lo accompagnavano alla chiesa di San Giovanni ove seguiva la terza insediazione, cui faceva seguito la Messa. Dopo la Messa di guardiani giuravano fedeltà, vassallaggio, e tutela e restavano con lui a pranzare.

Palazzo dell' Arcivescovato in Piazza San Giovanni Battista

Palazzo dell' Arcivescovato in Piazza San Giovanni Battista

Giunto il vescovo al suo Palazzo, riceveva in dono, dalla Badessa, il letto nel quale aveva dormito la sera avanti, con tutti i suoi fornimenti di gran valore.

Questo rito fu col passare del tempo limitato al solo Sposalizio rituale, senza il pranzo e la dormita; anche lo Sposalizio venne infine abolito da Gregorio XIII, rimanendo così l’ ultimo, quello figurato dall’ Arcivescovo Antonio Altoviti con la Badessa suor Brigida Albizi.

Come si intuisce facilmente, lo Sposalizio rituale stava ad indicare il rapporto di parallela supremazia che la Badessa e l’ Arcivescovo esercitavano sul clero, rispettivamente, femminile e maschile. La cerimonia è una testimonianza sicura del fatto che il Monastero, intitolato a San Pietro (detto San Pier Maggiore) costituiva un punto di riferimento del potere ecclesiastico a Firenze. La Badessa di San Pier Maggiore era familiarmente detta, in ragione di questa cerimonia, la “sposa del Vescovo“.

Nel contesto di questa suggestiva cerimonia si inserisce, come accennato, il privilegio accordato ad una delle più nobili famiglie fiorentine, gli Strozzi. A questa infatti era concesso, in qualità di “custodi ed avvocati del Vescovato”, di appropriarsi dei ricchissimi finimenti della cavalcatura del Vescovo, una volta che questi, arrivato a San Pier Maggiore, ne scendeva. Gli Strozzi portavano dunque questi ricchissimi trofei al loro Palazzo e li esponevano per molti giorni alle finestre a significare la peculiare distinzione loro riservata.

Questo privilegio non fu sempre appannaggio della famiglia Strozzi: inizialmente il ruolo di accompagnatori e garanti del nuovo Vescovo era riservato ai Vicedomini, che ottenevano poi la bardatura del cavallo, eccetto per la sella ed i finimenti, che spettavano invece alla famiglia Del Bianco.

Le testuggini del Palio de’ Cocchi

Obelisco in Piazza Santa Maria Novella

Uno dei due obelischi in Piazza Santa Maria Novella

Ormai non ci faccio più caso passandoci davanti, ma per diverso tempo mi sono chiesto, incuriosito, che stramberìa fossero quegli obelischi, che campeggiano ai lati opposti di Piazza Santa Maria Novella, sostenuti sul dorso, ciascuna di quattro testuggini in bronzo: mi sembrava un ornamento di foggia piuttosto strana.

Poi, col tempo, sono riuscito a riscostruire tutti i pezzi del puzzle, a partire dai famosi obelischi, che non furono messi lì per caso e nemmeno per semplice decorazione.

Bisogna tornare, per capire tutta la faccenda, ad una delle più curiose manifestazioni che si acompagnavano alle celebrazioni del santo patrono, ovvero il Battista. Si tratta del cosiddetto Palio de’ Cocchi, che si correva in Piazza Santa Maria Novella alla vigilia di San Giovanni, cioè il 23 di giugno.

La corsa prendeva il nome dal cocchio usato da ciascun partecipante, in tutto simile alle bighe usate in epoca romana nel Circo Massimo; così come al Circo si ispirava il circuito ovale in Santa Maria Novella. Il Palio de’ Cocchi era in pratica una moderna riedizione della corsa con le bighe.

Ed ecco allora a cosa servivano i due obelischi: essi fungevano da limiti interni del circuito di gara. E’ per questo uso che furono fatti scolpire in marmo di Seravezza dal Granduca Ferdinando I, che aveva anche commissionato al Giambologna di fondere le testuggini in bronzo sulle quali essi dovevano poggiare.

Dettaglio della testuggine che sorregge l' obelisco

Dettaglio della testuggine che sorregge l' obelisco

Il Palio peraltro si correva già prima della collocazione degli obelischi: si usavano invece di quelli due guglie in legno.

Per volere di Cosimo I, correvano il Palio quattro sqaudre, contraddsitinte da altrettanti colori: Prasina (verde), Russata (rosso); Veneta (blu) e Bianca (dello stesso colore). Anche in mancanza di indicazioni in merito, sarei dell’ opinione che le quattro squadre corrispondano a quegli stessi quattro qaurtieri che giocano il Calcio in costume.

La cosa più curiosa da scoprire sarebbe il motivo di quelle testuggini per reggere gli obelischi, che è poi il dettaglio che mi aveva colpito inzialmente. Su questo purtroppo non trovo nulla. Mi piace però fare una supposizione, come mi rassegno a fare quando non sia possibile fare altrimenti: immagino che le testuggini, simbolo eloquente della lentezza, siano state scelte come contrappuntoproprio a quella gara dei Cocchi in cui la velocità dava la vittoria.

Testuggini che sorreggono l' obelisco

Le quattro testuggini sorreggono agli angoli l' obelisco

Curioso ricordare anche il fatto che il Palio dei Cocchi non era l’ unico corso in città, ma esisteva anche il Palio dei Berberi, che si correva al galoppo invece che con le bighe, e attraversava tutta la città dal Ponte alle Mosse all’ Arco di San Pierino. La sorte delle due manifestazioni è stata però identica: entrambi non si corrono più da un paio di secoli.

Oggi che il Palio non si corre più, restano i due obelischi come cimelio della primitiva conformazione di Santa Maria Novella, che proprio in questi ultimi anni è stata completamente ri-lastricata ed ha visto apparire delle curiose panchine a forma di parallelepipedo in stile minimal, con frasi celebri incise sopra.