Archivi categoria: Borghi, rioni e contrade

Storia, curiosità e monumenti di spicco delle principali suddivisioni della città di Firenze, dai borghi, ai rioni, dai quartieri ai gonfaloni

La meridiana del Duomo di Firenze: lo spettacolo del solstizio d’estate con lo gnomone più grande del mondo

Il periodo del Solstizio d’estate (attorno cioè al 21 giugno di ogni anno) è un momento particolarmente interessante per visitare il Duomo di Firenze, che oltre a straordinarie attrazioni turistiche come la Cupola del Brunelleschi e la Torre di Giotto, può offrire un singolare spettacolo in cui i raggi del sole si vanno ad allineare, grazie ad un antico ed ingegnoso gnomone, ad una meridiana solstiziale individuata diversi secoli fa con stupefacente precisione.

Ecco in cosa consiste lo spettacolare evento solstiziale all’interno del Duomo di Firenze: una delle finestre della Cupola riporta al suo interno una piccola “mensola forata”, attraverso il cui pertugio passano i raggi solari nel periodo del solstizio d’estate. Il fascio di luce di forma circolare viene così proiettato sul pavimento di una delle Cappelle laterali del Duomo, e precisamente la cosiddetta “cappella della Croce”, in un orario compreso fra le 12 e le 13. Nel corso di questo periodo di tempo, il fascio luminoso proiettato attraverso lo gnomone arriva a coincidere, sotto lo sguardo attonito di centinaia di turisti accorsi per assistere alla ricorrenza, con una lastra marmorea anch’essa circolare, che denota il momento in cui il sole raggiunge lo zenit nel corso del suo tragitto celeste ed è in questa collocazione sin dal 1510.

La prima particolarità dell’evento consiste proprio nel peculiare “strumento scientifico” impiegato per l’osservazione astronomica del solstizio d’estate: si tratta infatti di una meridiana che, differentemente da quelle che siamo abituati a vedere di solito, impiegano non il classico gnomone “ad asta”, bensì uno foro gnomonico, con la conseguenza che l’indicatore proiettato sulla meridiana non è rappresentato da una linea d’ombra ma, per l’appunto, e all’opposto, da un fascio luminoso di forma circolare. Questo particolare artificio dipende dalla elevata altezza da cui viene proiettato l’indicatore luminoso attraverso il foro gnomonico: poichè infatti la precisione delle misurazione aumenta con l’altezza dal suolo, le finestre della Cupola del Duomo rappresentano la collocazione ideale per questo tipo di esperienza scientifica ma, allo stesso tempo, accade che un eventuale gnomone ad asta proietterebbe al suolo un ombra eccessivamente sfumata, ovvero indefinita e quindi non in grado di marcare alcunchè. L’utilizzo di un foro gnomonico, opportunamente rimpicciolito (quello del Duomo misura circa 5 centimetri), consente invece di proiettare al suolo, secondo il principio del “foro stenopeico“, un fascio luminoso circolare dotato di un sufficiente grado di contrasto con l’ombra circostante.

Funzionamento della meridiana all'interno del Duomo di Firenze

Immagine che illustra il funzionamento della meridiana del Duomo di Firenze, con la relativa proiezione luminosa attraverso il foro gnomonico.

La particolarità dell’evento dipende dunque anche dalle elevate dimensioni di questa insolita “meridiana solare”. Proprio allo scopo di ottenere un’immagine sufficientemente nitida e quindi una misurazione accurata, il foro gnomonico si trova nella Cupola del Brunelleschi collocato ad una altezza di circa 90 metri, fatto questo che rende lo gnomone del Duomo di Firenze il più grande del mondo. Per rendere l’idea delle colossali proporzioni di questo gnomone, basti pensare che i tre più grandi dopo quello di Firenze non raggiungono, anche sommati tutti insieme, i 90 metri toccati in Santa Maria del Fiore. Si tratta in effetti degli gnomoni di Saint Sulpice a Parigi, quello in san Petronio a Bologna e quello in Santa Maria degli Angeli a Roma, le cui altezze sono pari, come si evince dall’opera dello Ximenes intitolata Del vecchio e del nuovo gnomone  fiorentino, rispettivamente a 80 piedi, a 83 piedi e a 62 piedi e mezzo, cioè complessivamente circa 225 piedi (poco più di 73 metri).

Lo stesso Leonardo Ximenes, illustre studioso gesuita, riporta la croni-storia più completa e attendibile rispetto alla costruzione e ai trascorsi dell’insigne strumento di misurazione nella Prefazione ai quattro Libri che compongono la sua opera citata sopra. Nella sua opera pubblicata nel 1757, lo Ximenes individua in Paolo dal Pozzo Toscanelli, astronomo e cartografo famoso per aver collaborato con Cristoforo Colombo alla progettazione del suo visionario viaggio verso le Indie Occidentali, colui che l’aveva progettato, indicando il 1468 come data più verosimile per la sua entrata in funzione. L’ipotesi formulata dallo Ximenes viene definitivamente confermata, a meno di un eventuale scarto di soli pochi anni circa la data di installazione, nel 1979, anno in cui l’addetto all’archivio del Museo dell’Opera del Duomo rende pubblico il ritrovamento di un documento relativo al pagamento di un compenso a favore di Bartolomeo di Fruosino per la realizzazione di un modello in bronzo fatto per conto di Paolo Toscanelli nell’ambito della realizzazione dello gnomone astronomico. Il documento riporta testualmente quanto segue:

Archivio dell’Opera del Duomo di Firenze
Quaderno Cassa, serie VIII-1-61, anno 1475, carta 2v MCCCLXXV
Spese d’Opera
E adí detto
(16 agosto) lire cinque soldi quindici dati a Bartolomeo di Fruosino orafo, sono per il primo modello di bronzo di libbre 23 once 4, fatto per Lui a istanza di maestro Paolo Medicho per mettere in sulla lanterna, per mettere da lato drento di chiesa per vedere il sole a certi dí dell’anno.
Lire 5 soldi 15

Cerchio di luce si sovrappone al marmo solstiziale sotto lo sguardo dei turisti

Il cerchio di luce proiettato attraverso il foro gnomonico va a sovrapporsi lentamente sopra il marmo solstiziale installata nel 1510, sotto gli occhi dei turisti incuriositi

Questo strumento rimane di effettiva utilità scientifica per quasi tre secoli: fino alla metà del Settecento infatti la meridiana di Santa Maria del Fiore risulta in grado di competere in precisione con il telescopio, mentre successivamente, migliorie sempre maggiori su quest’ultimo strumento renderanno le misurazioni nel Duomo di Firenze obsolete. Le misurazioni solstiziali rimangono in vigore come semplice manifestazione folkloristica su iniziativa del direttore dell’Istituto Ximeniano Giovanni Giovannozzi e del suo succesore Guido Alfani, allo scopo di incentivare la conservazione del marchingegno di grande valore storico e culturale, ma soltanto fino alla metà degli anni Settanta del Novecento, quando la tradizione va a smarrirsi. Su impulso degli studiosi Piero Ranfagni dell’Osservatorio di Arcetri e di Alberto Righini, del Dipartimento di Astronomia e Scienze dello spazio dell’Università di Firenze, che ne fanno richiesta all’Opera del Duomo, la suggestiva consuetudine viene infine ripristinata a partire dal 1996, e vi si può ancora oggi partecipare nel mese di giugno grazie al coordinamento scientifico del Comitato per la Divulgazione dell’Astronomia, del Museo ed istituto di Storia della Scienza e del Dipartimento di Astronomia e Scienza dello Spazio dell’Università degli Studi di Firenze.

L’ingresso è libero fino ad esaurimento dei posti disponibili, ma è necessaria la prenotazione e la spiegazione dell’evento è effettuato soltanto in lingua inglese, per venire incontro alle esigenze di una platea che, composta prevalentemente di turisti da tutte le parti del mondo, è sicuramente internazionale.

Per una trattazione più completa sul funzionamento, sull’utilizzo scientifico, e sulla storia della meridiana del Duomo di Firenze si può leggere l’approfondito articolo di Righini e Ranfagni.

Se volete vedere il suggestivo fenomeno all’opera, per rendervi meglio conto di quanto raccontato sopra, guardate il video, che mostra il circolo di luce nel momento in cui va a sovrapporsi al marmo solstiziale.

La palla d’oro sulla lucerna del Duomo: quattrocento anni di fulmini e saette

Disco di marmo in Piazza del Duomo a Firenze a ricordo della caduta della palla dorata del Verrocchio

Il disco di marmo bianco in Piazza del Duomo che ricorda il punto in cui cadde la palla dorata dalla lanterna della cupola il 27 gennaio 1600

Prima o poi l’hanno notata tutti i fiorentini che passano di frequente in piazza del Duomo e, credo, anche i turisti più attenti ai dettagli: sto parlando della lastra di marmo bianco, di forma circolare, piazzata nella parte posteriore di Piazza del Duomo a Firenze, isolata in mezzo ai classici blocchi di pietra grigia che compongono l’intero lastricato della piazza dedicata al santo protettore della città. La sua collocazione salta all’occhio all’osservatore attento, non solo perchè completamente “fuori contesto” rispetto al resto del lastricato, ma anche perchè la sua peculiare posizione non lascia indovinare in nessun modo la sua funzione, e d’altra parte la lastra circolare è completamente liscia e senza iscrizioni esplicative che aiutino il visitatore a capirci qualcosa. Eppure la maggior parte dei fiorentini sa di cosa si tratta, dato che rappresenta l’unico segno tangibile di uno dei più famosi aneddoti della storia di Firenze, quello della rovinosa caduta per via di un fulmine della palla dorata che adorna tutt’ora la sommità di Santa Maria del Fiore.

Veduta del punto di Piazza del Duomo in cui si trova il disco di marmo bianco

Il punto di Piazza del Duomo in cui si trova il disco di marmo bianco che ricorda la caduta della palla dorata del Verrocchio nel 1600

In effetti, la lastra bianca circolare, rappresenterebbe, secondo la tradizione, il punto in cui venne cadere, a seguito di un fulmine che la colpì nella notte fra il 26 ed il 27 gennaio 1600, la grande palla di rame dorato che, sormontata dalla croce, adorna la sommità del “Cupolone” del Duomo di Firenze. Per chi desidera ammirare le vestigia di quel lontano evento, il tondo bianco che lo rammenta è collocato nella parte posteriore destra del Duomo (guardando la facciata), ossia nello slargo in cui sfociano via del Proconsolo e via dell’Oriolo. E’un punto facile da individuare prendendo come riferimento l’ottagono della Cupola di Brunelleschi: basta infatti individuare l’unico lato “completato” con la galleria in marmo bianco di cui Michelangelo ebbe a dire che sembrava una gabbia per i grilli. Proprio alla base di codesto lato, ad una ventina di metri dal Duomo, si trova il segno che commemora la caduta della ponderosa palla.

Le notizie più dettagliate sulla caduta della sfera dorata colpita dal fulmine nel 1600 ci sono riportate da Fernando Leopoldo del Migliore, il quale racconta che un fulmine cadde alla quinta ora di notte con grandissimo rumore e danno corrispondente. Narra che vennero giù non solo la palla con la croce, ma anche infiniti pezzi di marmo, scheggiati con tale veemenza dalla forza degli elementi che ne arrivarono frammenti fino a Via de’ Servi. A suo dire le persone abitanti nei dintorni ne ritrassero tale spavento che parve loro arrivata la fine del mondo e che ad una voce il popolo non faceva che chiedere misericordia.

La ricostruzione fu molto veloce grazie al provvido e sollecito intervento del Granduca Ferdinando II, come testimoniato dalla fitta corrispondenza con l’Opera del Duomo. Francesco Bocchi ricorda in una sua lettera come “il volere del Granduca che tutto appuntino si ricostruisse a norma dell’antico modello fu adempiuto. Solamente di tenne la palla un poco più grande; e nella palla, per consiglio del Buontalenti, fu praticata una finestrella, che dà luce a chi vi è dentro, e serve per uscita più sicura a chi, per lavori o per accendere i panelli in occasione di luminarie, è obbligato a salir sulla croce. ” Nella stessa lettera il Bocchi rammenta che “Il nodo, ch’ è sotto la palla, pesò libbre’ 1290: l’armatura della palla libbre 3094; e con la palla, 5030: la croce andò a 1080. La doratura della croce valse 120 scudi”. Nel 1602, in data 21 ottobre, la palla veniva nuovamente ricollocata, e nel maggio 1603 vennero collocate all’interno della croce alcune reliquie, dato che all’epoca non si conoscevano ancora mezzi migliori di difesa contro i fulmini che raccomandarsi ai santi. Della croce e della palla originali, della cui rovina Matteo Nigetti fece un disegno andato purtroppo disperso, furono tratte ben tre libbre d’oro ma non sembra ne residuasse niente in quelle reinstallate. Per il restauro dell’opera del Verrocchio furono convocati a Firenze i più valenti orefici dell’epoca, e la commessa fu affidata infine all’artista Matteo Manetti, che per il grande onore commessogli non chiese alcun compenso. Il lavoro di restauro fu concluso dal Manetti il 18 settembre 1802, dopo appena un mese di lavori e, per l’eccezionale perizia dimostrata, l’orefice fu insignito del titolo di orefice dell’Opera del Duomo.

Palla d'oro con croce realizzata nel 1602 da Matteo Manetti

La palla d’oro sormontata dalla croce forgiata nel 1602 da Matteo Manetti in sostituzione di quella del Verrocchio

Realizzata a partire dal 1468 dal maestro orafo e valente artista Andrea del Verrocchio, noto per aver tenuto a bottega a dipingere un giovane Leonardo da Vinci, la sfera di rame ricoperta d’oro fu issata sulla sommità della lucerna del Duomo il 27 maggio 1471, e divenne sin da subito orgoglio e vanto dei fiorentini, con i suoi due metri e mezzo di diametro e le quasi 20 tonnellate di peso. Eppure, sin dagli esordi, il suo destino non sembrò promettere per il meglio, dato che il 5 aprile del 1492, appena una ventina di anni dopo il suo esordio, un primo fulmine fece rovinare un terzo della lanterna e crollare la cupola in ben cinque punti. L’avvenimento è menzionato con dovizia di particolari nelle Ricordanze di Tribaldo de’ Rossi, che oltre a riportare in dettaglio i danni ricevuti dal Duomo, ricorda come lui stesso e molti del popolo portarono a casa grossi pezzi della lucerna per ricordo, mentre i capi dell’Opera del Duomo vedendo le pessime condizioni in cui versava, già pensavano di sfare la lucerna e rifarla per intero, per quanto il danno paresse ammontare a più che 5000 fiorini. La rovina fu tale che i superstiziosi fiorentini, la cui fantasia era allora già eccitata dalle infuocate prediche del Savonarola (che aveva predetto entro le calende d’agosto grandi mali su Firenze), intesero le distruzioni causate al Duomo come presagio divino circa la funesta dipartita del Magnifico Lorenzo de’ Medici, morto infatti l’8 dello stesso mese.

Lanterna del Duomo di Firenze oggi, con in cima palla dorata e croce

Lanterna del Duomo di Firenze oggi, sormontata dalla sferra di rame dorato con croce ricostruita ed innalzata nuovamente nel 1602.

Se molti dei fiorentini ricordano il perchè di quella lastra bianca, la maggior parte di loro non sa però che la grande sfera dorata fu tormentata nel corso della sua lunga storia da numerosi accidenti dovuti alla sua posizione preminente nell’ambito della skyline fiorentina, che finiva per attirare fatalmente le scariche elettriche nel corso dei temporali, così come similmente succedeva alla banderuola in cima alla torre del Palazzo Vecchio. Così, nel corso di quattro secoli, furono quasi una trentina le saette che andarono a segno sulla sommità del lucernario del Duomo, quando più quando meno rovinosamente, e fra queste quella del 1600 è rimasta più famosa delle altre proprio per la rovinosa caduta della sfera. Abbiamo notizia dei molti danni ricevuti per via dei fulmini dalla Cupola del Duomo grazie alle cronache dell’epoca, e in particolare al Diario fiorentino redatto nel corso di una intera vita dallo speziale Luca Landucci, il quale ci informa che, nel solo anno 1542, particolarmente nefasto per il Cupolone di Firenze, due saette colpirono con pochi danni la sommità del Duomo nei giorni 6 e 18 settembre, poi di nuovo il 18 ottobre vi fu un temporale che colse a suon di fulmini sia la cupola di Santa Maria del Fiore che Palazzo Vecchio, e infine il 22 dicembre una saetta esiziale colse il lucernario del Duomo causando una tale rovina, il cui danno fu stimato ammontare alla favolosa cifra di 12.000 scudi. Basti pensare poi che, prima di quello famoso del 1600, si ricordano decine di altri fulmini andati a segno contro la cupola del Duomo: oltre a quelli del 1542 ricordati dal Landucci, infatti, le cronache del tempo riferiscono di una saetta nell’aprile 1494, di una il 9 agosto 1495 che ruppe una colonna della lanterna, di una nel giugno 1498, di una il 4 novembre 1511, di una nel 1536, di più fulmini nell’anno 1542 in un sol giorno, di una il 5 novembre 1570 che procurò molti danni, quindi di una il 2 ottobre 1577  che gettò a terra un nicchio grande di marmo che venne a cadere dinanzi alla porta dell’opera); dunque ancora il 3 novembre 1578  in cui due fulmini provocarono gran rovinio dei marmi, dei quali uno cascò sul canto di via dei Martelli e pesava 800 libbre; infine uno del 28 agosto 1586  che gettò i rottami fino in Borgo S. Lorenzo.

Successivamente a quello storico del 1600, ve ne furono ancora uno il 22 agosto 1699 e uno il 13 giugno 1776 con danni di grave entità. Cesare Guasti, nella sua opera La cupola di Santa Maria del Fiore pubblicata nel 1857, rammenta come nel 1822, ben 70 anni dopo che Benjamin Franklin aveva inventato il parafulmine, si pensò infine di proteggere la Cupola, con la sua lucerna e la palla dorata, tramite “pali elettrici”, anche se inizialmente l’idea rimase lettera morta. Se ne ricominciò a parlare nel 1828 quando fu sentito l’architetto Gaetano Baccani e il Padre Giovanni Inghirami delle Scuole Pie. Quest’ultimo, consigliò di mettere “due spranghe”: una sulla cupola e una sul campanile. Nuovamente, non si ha tuttavia notizia di alcuna decisione anche in questo frangente, e si deve arrivare fino al 1859 per l’installazione dei “pali elettrici” ad opera dei Padri Scolopi Giovanni Antonelli e Filippo Cecchi. Ancora una volta, però, la cattiva sorte della Cupola del Duomo sembrò insuperabile: i “pali elettrici” non furono infatti di grande utilità, dato che due fulmini ancora colpirono la Cupola, uno violento il 16 agosto 1879 che abbattè parte di un costolone prospicente la piazzetta delle Pallottole danneggiando la terrazza di Baccio D’Agnolo mentre un altro cadde il 19 giugno 1885, fortunatamente senza danni. Nonostante le alterne vicende anche successive all’installazione del parafulmine, l’enorme sfera dorata è oggi ancora la stessa forgiata nel 1602 dall’orefice Manetti e vanta quindi più di 400 anni di vita (415 per la precisione). Curiosità nella curiosità, nel 2002 il restauro del pregevole manufatto aureo è stato finanziato dalla prestigiosa azienda di oreficeria Giusto Manetti Battiloro, il cui fondatore, Luigi, poteva vantare nel 1820, quando creò l’azienda che poi lascerà al figlio Giusto, di essere il discendente in linea diretta alla quinta generazione del grande maestro Matteo e di Dianora Dolci, come mostrato nell’albero genealogico della famiglia che illustra le ben quindici generazioni di arte orafa della famiglia Manetti. La palla dorata fu quindi sfortunata nel corso dei secoli, ma ha portato certamente bene al grande artista che la fece rinascere a nuova vita.

 

Il Castello di Sammezzano: un palazzo in stile moresco nella patria del Rinascimento

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Facciata principale del Castello di Sammezzano

La caratteristica principale del Castello di Sammezzano, che lo fa spiccare in mezzo alle centinaia di pur meravigliose ville e palazzi a Firenze e dintorni, è il suo stile “moresco”, così raro in Italia e certamente così difforme dalle linee stilistiche dell’architettura rinascimentale che siamo abituati a vedere in Toscana.

Abituati come siamo ad essere circondati da straordinari esempi di architettura rinascimentale o, al più, gotica – riflessa in edifici famosi in tutto il mondo e progettati da straordinari architetti che si studiano sui libri di storia dell’arte, si resta certamente stupiti nell’apprendere che l’unico esempio di edificio monumentale in stile moresco in Italia, aldifuori della Sicilia, si trova proprio a pochi kilometri dalla nostra città: il castello di Sammezzano a Leccio.

Anche se troppo pochi ancora lo sanno, infatti, questa stupefacente residenza in stile eclettico fonde il prevalente stile “moresco”, caratterizzato dai tipici motivi geometrici che siamo abituati ad associare ad una vacanza in Andalusia, con decorazioni più propriamente riconducibili all’arte indiana. Ciò che stupisce di questo castello, che riecheggia in ogni suo particolare, tanto negli esterni quanto negli interni, le atmosfere del vicino e dell’estremo oriente è appunto trovarlo a poca distanza da Firenze, patria di quel Rinascimento che è stato fra le altre cose “canone” dell’architettura italiana per secoli.

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Uno degli interni del Castello ispirati allo stile “moresco”

Certamente ci potremmo aspettare qualcosa di simile in Sicilia, ma a Firenze trovarsi di fronte il castello di Sammezzano rappresenta un’apparizione pressochè estatica, che fa viaggiare lo spettatore nello spazio e nel tempo, fuori da tutti gli schemi a cui è abituato tutti i giorni. Siamo infatti nel Valdarno, e in particolare a Leccio, frazione del comune di Reggello che, curiosamente, è famosa prevalentemente per la presenza di un outlet che propone marchi celebri come Prada e Tod’s piuttosto che per questa meraviglia “nascosta”.

E nascosta è rimasta infatti per molti anni, all’esito di una storia piuttosto tribolata e purtroppo non ancora risolta. Tuttavia, ed è notizia di pochi giorni fa (9 maggio 2017) il Castello dopo anni di incuria è stato finalmente aggiudicato ad un nuovo proprietario, in questo caso una società degli Emirati Arabi Uniti che se l’è aggiudicato per la cifra di 15 milioni e 400 mila euro, cosa che fa balenare una piccola scintilla di speranza che il complesso venga finalmente riqualificato e aperto al pubblico.

Per capire appieno il pregio storico ed artistico del Castello di Sammezzano, basta ricordare che questo imponente maniero ed il suo parco sono risultati vincitori dell’Ottava Edizione  (2017) del censimento “I Luoghi del Cuore”, promossa dal Fondo per l’Ambiente Italiano, con ben 50.141 preferenze. Questo significa che questo monumento è particolarmente amato ed apprezzato in Toscana e che, grazie alla paziente e preziosa opera dei volontari del gruppo Save Sammezzano, la fama del magnificato edificio è arrivata anche fuori dai confini regionali, consentendogli di raccogliere preferenze anche nel resto d’Italia.

Per maggiori informazioni sull’ex-hotel e sulle attività connesse, si può visitare il sito appositamente al Castello di Sammezzano.

 

Le botteghe degli orafi su Ponte Vecchio: perchè ci sono solo gioiellerie e argenterie

Ponte Vecchio è famoso per la sfilza di botteghe di orafi e gioiellieri che ci stanno sopra ed oggi appare certamente normale che uno dei “luoghi-simbolo” di Firenze sia sede di soli esercizi di preziosi e beni di lusso. Tuttavia, non è stato sempre così, e ciò che a noi oggi sembra perfettamente normale è in realtà frutto di un preciso provvedimento mirante a “nobilitare” il ponte più antico e importante della città.

Ma cominciamo dal fondo: siamo nel 1593, e l’allora Granduca Ferdinando I, figlio di Cosimo I e fratello di Francesco, emana un decreto con cui “sfratta” artigiani e commercianti che avevano occupato fino a quel momento i fondachi su Ponte Vecchio: si tratta di beccai, erbivendoli, pesciaioli e altri commercianti “minuti”, che ci si erano installati sin dal 1345, anno in cui, dopo la disastrosa alluvione che lo aveva travolto, il principale ponte di Firenze era stato ricostruito su tre solidi arconi.

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I tradizionali sporti in legno che serrano le botteghe degli Orafi su Ponte Vecchio

Per motivi certamente di decoro di un così importante snodo della viabilità cittadina e forse anche perchè potevano permettersi di pagare imposte più alte, Ferdinando I decide di liberare queste botteghe collocate in un contesto privilegiato a favore di orafi e argentieri, con divieto di installarvi attività differenti dal commercio di preziosi. Il Granduca prevedeva, infatti, col suo editto del settembre 1593, che Ponte Vecchio fosse sbarazzato entro il successivo 2 maggio 1594 (in pratica il giorno successivo alla festività tradizionale del Calendimaggio – cioè il 1° maggio), di tutte le “arti vili”, quali beccai, pizzicagnoli, trecconi ed altri piccoli rivenditori, in quanto il ponte risultava “luogo assai frequentato da gentiluomini e da forestieri”.

Soluzione naturalissima per un Ponte che anche oggi è meta di centinaia di migliaia di visitatori l’anno e rappresenta uno dei monumenti più famosi al mondo: ancora oggi, oltre quattro secoli dopo il provvedimento granducale, infatti, le tradizionali “madielle” (cioè le vetrinette con gli sportelli in legno) luccicano dei bagliori dei metalli più preziosi.

Oltre alle spiegazioni più verosimili del decreto granducale, sono state proposte anche altre versioni, forse meno credibili ma comunque gustose. Una prima variante rispetto alla versione “ufficiale” dell’avvenimento, e forse quella più aneddotica, è che la presenza di beccai e altri commercianti di vettovaglie disturbasse, con lo schiamazzo provocato dalla moltitudine di popolo richiamato, la passeggiata del Granduca, che decise pertanto di  collocare uno spettacolo migliore per gli occhi e per la sua pace; non è tuttavia molto verosimile, considerato che il Corridoio Vasariano esisteva sin dal 1565 (per volere del padre suo Cosimo I) ed aveva appunto la funzione di preservare tale percorso per il sovrano.

Un’ulteriore variante fa invece riferimento alla situazione igienica creata dalle attività presenti in precedenza su Ponte Vecchio, e si ricollega a quella motivazione di “decoro” che appare la più credibile: sembra infatti che la presenza di beccai e pesciaioli fosse non solo origine di un gran cattivo odore, ma anche di inquinamento delle acque d’Arno in cui venivano precipitati scarti di bestiame e pesci, mentre arti nobili come il commercio di preziosi non generava scarti di lavorazione.

E pensare che i beccai erano stati costretti nel 1442 a spostarsi su Ponte Vecchio, in modo da segregare tale insalubre attività (che generava miasmi, carogne e resti di carne) dalle abitazioni del centro cittadino: in pratica quindi, tale collocazione rappresentava inizialmente una situazione di “ghettizzazione” di questo tipo di commercio, mentre un secolo e mezzo dopo rappresenta un punto già considerato “di pregio”. In ogni caso sono sempre i beccai che, nel giro di un tempo relativamente breve vengono sfrattati.

Tutto ciò che residua oggi, a poco più di quattro secoli dal “Bando di cacciata” di Ferdinando I, delle pre-esistenti attività di vendita di vettovaglie e cibarie varie è la minuscola piazzetta di forma triangolare che si trova giusto all’imbocco di Ponte Vecchio, dalla parte “di quà d’Arno”: delimitata da via de’ Gerolami e dal Lungarno Archibusieri, la piazzetta riporta ancora lo storico nome che ne denotava la funzione, ossia “Piazza del Pesce”.

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Piazza del Pesce vista dall’arco della Torre degli Amidei

In effetti, i pesciaioli vennero trasferiti dalla piazza suddetta, prima in Mercato Vecchio (che si trovava dove ora sorge Piazza della Repubblica) e, successivamente, nell’attuale Piazza dei Ciompi, assieme alla Loggia del Pesce che venne per l’occasione smontata e rimontata nella nuova collocazione. La “beccheria” invece, cioè la concentrazione delle botteghe dei macellai si sposta a Mercato Vecchio è lì rimane, fino alla bonifica ottocentesca dell’area, che porta la vendita di cibarie all’attuale Mercato di San Lorenzo.

La pensilina di Toraldo di Francia: un’epopea da Italia ’90 alla demolizione

Chi non ricorda la “pensilina di Toraldo di Francia”? Sicuramente molti la ricordano, soprattutto per averla sentita decine di volte in bocca all’allora sindaco Renzi, che inveiva contro quello che riteneva evidentemente uno “sfregio architettonico” alla bella Fiorenza, che doveva fungere in quegli anni da palcoscenico tirato a lustro per la sua folgorante ascesa politica. Si tratta della pensilina costruita sul marciapiede antistante il “fabbricato Viaggiatori” della stazione S.M.N. che fungeva fino ad anni recenti da Terminal per la maggior parte dei bus cittadini gestiti dall’A.T.A.F..

Per chi non la ricordasse, o non sapesse proprio di che si tratta, ecco come si presentava questa pensilina che in Via Valfonda, proprio all’uscita dalla stazione Santa maria Novella, fungeva da “diaframma” rispetto agli edifici sul marciapiede dove di trovava il McDonald (oggi c’è anche il Burger King all’altro capo, dove prima c’era la Stazione della Lazzi):

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Ve la ricordate ora? Sono sicuro di sì…e probabilmente ricordate anche le file di motorini innumeri e di biciclette sciancate che l’assiepavano, le sue striscie di marmo bicolore sbiadite, i materassi che che la mattina testimoniavano come la notte si trasformasse in dormitorio per molti senza-tetto e i cumuletti di spazzatura nascosti alla meglio negli angoletti più riposti (ma neanche troppo).

E poi l’edicola dei giornali (quella c’è ancora assieme ai pini giganteschi) e il gabbiotto dell’Ataf dove i biglietti non li faceva nessuno perchè si faceva prima a pigliarli all’edicola adiacente…

E, ancora, i numerosi quanto immancabili graffiti ma soprattutto, infine, il doppio filare di pilastri scuri che sorreggevano la duplice pensilina.

Ora ve la ricordate, sì? Però non c’è più, perchè è la Pensilina stata demolita, a partire dal 9 agosto 2010, con un intervento arrivato dopo anni e anni di polemiche dovute sia al degrado che si era formato sotto le sue generose tettoie, sia per la supposta incongruenza architettonica che caratterizzava il modernissimo artefatto in rapporto ai “capolavori” prospicienti: da un lato le linee razionaliste della Stazione progettata dal Michelucci e dal suo “Gruppo Toscano”, dall’altro il gotico reverendissimo della basilica di Santa Maria Novella.

Eppure, non è durata molto: fu progettata in vista (e coi soldi) dei Mondiali di calcio “Italia ’90”, in occasione dei quali Firenze col suo stadio rappresentava una delle città in cui disputare le gare. La progettazione, affidata ad un architetto di un certo rilievo (Cristiano Toraldo di Francia, in collaborazione con Andrea Noferi) viene infatti principiata nel 1987 e terminata per l’appunto nel 1990.

L’opera veniva descritta come “un doppio portico [che] si divarica lungo le due direzioni – una parallela alla via Valfonda, l’altra al Fabbricato viaggiatori della Stazione – concluso alle estremità da testate che intendono riferirsi al contesto. Il lato porticato è riservato alle fermate, mentre sul lato opposto e nelle testate si trovano servizi commerciali e turistici. La struttura del portico è metallica, la copertura reticolare rivestita in alluminio; le colonne portanti sono rivestite da fasce marmoree bicolori analogamente alle architetture di testata, coperte da lucernari in vetro e rame”.

Tanto vituperata, bisogna rammentare a sua discolpa che il degrado e la fatiscenza in cui versava non erano certo colpa della struttura in sè, quanto piuttosto della mancanza di manutenzione, pulizia e controllo da parte delle autorità preposte anche se, per poterla più facilmente rimuovere, è stato facile convincere l’opinione pubblica che la pensilina di per sè “favoriva” l’annidarsi di situazioni di sporcizia e degrado: in pratica, si tratta di un caso unico al mondo: la pensilina trasformata in “untore” di manzoniana memoria.

E così, panacea di tutti i mali, è stata rimossa, liberando i grandiosi pini dall’abbraccio delle lamiere da cui spuntavano fino al 2010, ripavimentando tutta l’area e adottando il “pugno duro” contro ogni forma di sosta da parte biciclette e motorini. Di riconoscibile rispetto al “prima” c’è rimasta soltanto l’edicola (come già osservato), ed oggi l’area antistante l’uscita dalla Stazione lato via Valfonda appare così:

 

edicola_piazza_stazione

Curiosità nella curiosità, l’edicola che ancora oggi si vede là dove prima stava la Pensilina di Toraldo di Francia è diventata “abusiva” a seguito (e per effetto) dei lavori di risistemazione dell’area. Come riportato infatti nell’articolo di sitodifirenze.it, da cui è tratta l’immagine, il titolare dal 3 luglio 2011 non è in più possesso della Cosap (la Concessione di occupazione del suolo pubblico).

In pratica, una volta rimossa la Pensilina, anche l’edicola (che sta lì addirittura dal lontano 1966) è stata ritenuta “incompatibile” con il progetto di lavori programmati e di conseguenza ed è stato quindi proposto al sig. Lorenzo Ciampi (così si chiama il titolare) di spostarsi davanti al numero civico 2. Nelle more della concessione del permesso però, il Comune si è mosso per la demolizione dello storico chiosco, nonostante la proroga della Cosap promessa in data 7 luglio 2011.

Così, senza ancora l’autorizzazione per spostarsi, l’edicola si è trovata di fatto “sfrattata”, tant’è che la Polizia Municipale ha provveduto all’epoca a staccare la fornitura della corrente elettrica per “sollecitare” i titolari a sloggiare. Sicchè, l’edicola è rimasta lì, a resistere nonostante tutto, ma con l’improba difficoltà di dover chiudere all’imbrunire per mancanza di luce.

Della tanto vituperata pensilina ricordiamo almeno, mi sembra doveroso, due cose positive: il fatto che, quando pioveva a dirotto, chi usciva dalla Stazione aveva piacere di ripararcisi sotto, in attesa dei bus che all’epoca facevano “terminal” su quel marciapiede (e non era poca cosa, a pensarci bene); e poi quel nome ambiguo, ma straordinariamente evocativo che, finchè non ho approfondito la questione, mi faceva (e “Vi” faceva, ammettetelo…) pensare ad un monumento riferito ad un qualche re o nobiluomo gallico, con quel “Toraldo di Francia” altisonante ed epico, che sembrava assonare l’Orlando ariostesco.

 

 

 

A Berlingaccio, chi ‘un ha ciccia ammazzi il gatto

Quello del titolo è classico modo di dire toscano, collegato alla ricorrenza che in area fiorentina viene appunto chiamata Berlingaccio: si tratta semplicemente del Giovedì Grasso, ovvero il giovedì che precede il “Mercoledì delle Ceneri”, ovvero la fine del Carnevale.

Posto in forma di esortazione, questo modo di dire si riferisce a periodi in cui la disponibilità alimentare era ben più limitata che oggi, e poteva quindi accadere che molti poveri non avessero di che festeggiare nemmeno per il Giovedì Grasso, giorno tradizionalmente dedicato, in antitesi alla Quaresima incipiente, alla gozzoviglia più sfrenata.

L’antico proverbio ci ricorda come la tradizione di mangiare a crepapelle per il Giovedì Grasso fosse talmente radicata che, chi non poteva permettersi niente di meglio, veniva invitato a sacrificare piuttosto il caro felino, secondo un uso che, in particolare, vedeva il gatto quale passabile sostituto, in tempi di magra, della carne e, più precisamente, del coniglio.

Carnevale

Scena di Carnevale, festa cui si riferisce la ricorrenza del Berlingaccio

Curioso ricordare che Beppe Bigazzi, co-conduttore all’epoca de “La prova del Cuoco” con Elisa Isoardi, venne sospeso dalla Rai per aver ricordato, citando il celebre proverbio in oggetto, come nel suo natìo Valdarno il gatto in umido fosse un piatto prelibato, da lui stesso mangiato un sacco di volte.

Appurato che il gatto, almeno in Toscana, si mangiava eccome, vuoi per propensione culinaria che per necessità di integrazione proteica, torniamo alla festa del Berlingaccio, la cui etimologia è piuttosto interessante. Secondo il Varchi, berlingaccio fa riferimento a situazioni in cui ci si diletta a “empiersi la bocca pappando e leccando”. Allo stesso modo, il verbo berlingare che ne costituisce la radice, significherebbe ciarlare avendo ben pieno il ventre ed essendo ben riscaldato dal vino.

Secondo quanto riportato nel Dizionario degli Accademici della Crusca, i più antichi scrittori riferivano il verbo berlingare alle donne come sinonimo di cinguettare, ovvero ciarlare frivolamente ma il Varchi ricordava come questa fosse caratteristica anche maschile, allorchè si ha piena la trippa e molto vino in corpo. Desumendo da queste testimonianze, sembra di poter dire che la parola berlingaccio incorpora i due atti d’obbligo del Giovedì Grasso (ovvere bere e ingollare leccornie a crepapelle).

La povertà diffusa nei tempi in cui la tradizione si è radicata rendeva talmente importante mangiare di grasso almeno una volta l’anno che non solo era d’obbligo cibarsi di carne (proibita in tempo di Quaresima ma soprattutto particolarmente rara durante tutto l’anno per i poveri), ma la festività era contraddistinta addirittura da uno specifico dolce, che da essa prendeva il nome: il berlingozzo.

Pratilia superata dai Gigli: ma rinascerà grazie ad Esselunga

Il centro commerciale “I Gigli” è, come tutti sanno, il più grande della Toscana. Anche se pochi lo sanno, il mega-mall toscano, sebbene molto più vicino a Prato che a Firenze, si trova proprio in provincia del capoluogo di regione: l’indirizzo infatti, recita “Via San Quirico, 165 – Campi Bisenzio”, che è in provincia di Firenze.

Certo è notizia di poca importanza sapere che “I Gigli” (d’altra parte, il nome stesso rimanda chiaramente alla città gigliata) sono in provincia di Firenze piuttosto che di Prato, ma questa curiosità mi dà l’occasione per ricordare come questo “primato” sia passato a Firenze proprio dopo essere stato per molti anni un record tutto pratese.

Fino ad anni recenti, infatti, e fino all’inaugurazione dei Gigli, il più grande mall toscano è stato il mitico centro commeciale di Pratilia, a Prato per l’appunto. Mitico perchè, oltre che importante sito della GDO, divenne negli anni punto di ritrovo immancabile della gioventù pratese e meta di visitatori da tutta la Toscana.

Inaugurato nel 1977, forte di parcheggio sotterraneo, due supermercati, due magazzini della Standa, un centinaio di negozi e, soprattutto, la famosissima discoteca Pacha, possedeva anche una piscina sul tetto e si trovava in bella evidenza nel luogo che ancora oggi tutti i pratesi chiamano, semplicemente, “Pratilia”: l’angolo fra via Fiorentina e il raccordo Leonardo da Vinci (lato via B. Franklin).

Vecchio centro commerciale di Pratilia

Il vecchio centro commerciale di Pratilia, completamente degradato dopo il fallimento

Fallito formalmente nel 2003, il centro commerciale risultava già quasi interamente “spopolato” di negozi agli inizi degli anni ’90 e certamente il colpo di grazia gli venne dall’inaugurazione dei Gigli nel 1997: con un parcheggio enorme ed un ambiente iper-moderno ed una posizione molto più comoda che intercettava l’enorme flusso di visitatori fiorentini, “I Gigli” erano pronti a scippare, dopo il primato della superficie di vendita in Toscana, anche il ruolo di polo di attrazione che per venti anni era stato del glorioso centro di Pratilia.

Rendering della nuova Pratilia

Rendering della nuova Pratilia, visto dal raccordo Leonardo da Vinci, come apparirà una volta terminato

Nonostante lo scettro di centro commerciale più grande in Toscana sia passato da Prato a Firenze, però, Pratilia vedrà nei prossimi anni il suo riscatto: l’area un tempo occupata dal centro commerciale, abbandonata per lunghi anni e fortemente degradata, ospiterà dall’aprile 2014 il mega-store di Esselunga nuovo di zecca e, probabilmente entro Natale del 2015, vedrà anche l’inaugurazione di un mega-centro direzionale provvisto di torre-grattacielo a fianco del super-store, che ospiterà fra gli altri un hotel di lusso.

Esselunga di Pratilia con la torre-albergo

Veduta renderizzata della nuova Esselunga di Pratilia con la torre-albergo: il complesso dovrebbe essere terminato per Natale 2015

La dottrina fisiocratica prende corpo nella campagna pisana: Villa Saletta

L’Accademia dei Georgofili, posta nelle immediate vicinanze della galleria degli Uffizi, è l’avamposto della dottrina fisiocratica a Firenze, e nasce con lo scopo di studiare e migliorare il ciclo delle attività agricole, così importanti da sempre in Toscana, e, secondo la dottrina fisiocratica, unica attività capace di produrre effettivo plusvalore.

La curiosità di oggi è che, nei pressi di Palaia, esiste una località che tiene insieme l’Accademia dei Georgofili, le dottrine fisiocratiche e la famiglia dei principi Riccardi, a partire da Firenze come centro di irraggiamento. Come? Leggendo lo scoprirete.

Il viandante che per avventura percorresse la strada che da Pontedera va verso le colline di Legoli, appena superata la localita’ Montanelli, potrebbe girare a sinistra sulla strada per Palaia e dopo pochi chilometri vedrebbe su un poggio a sinistra della strada un borgo segnalato come Villa Saletta; se, sempre per avventura, gli prendesse vaghezza e curiosità di andare a vedere questo notevole agglomerato di costruzioni, potrebbe fermarsi dalla parte che conduce a Palaia e inoltrarsi tra due colonne sulla stradina che sale al borgo.

Entrando nel borgo ,tra due imponenti costruzioni, non potrebbe non notare, appesi agli edifici a destra e a sinistra all’altezza del primo piano, due scudi di pietra che riportano scolpite una chiave in verticale e nel cartiglio una data : “MDCCLXX” che vuol essere 1770.

A.D. MDCCLXX, anno domini 1770; manca ancora qualche anno alla rivoluzione francese ma siamo già in piena “età dei lumi” e dalla Francia gia’ promanano quelle idee e quegli atteggiamenti poi conosciuti come illuminismo.
Nel 1758 un medico francese, Francois Quesnay, studioso della circolazione sanguigna, pubblicava il trattato “tableau economique”, dove si analizzava il processo produttivo e la circolazione dei beni all’interno della societa’ francese del tempo: secondo il pensiero di Quesnay solo l’agricoltura e’ la vera base di ogni attivita’ economica e solo essa e’ in grado di generare un surplus o prodotto netto; tale dottrina e’conosciuta come fisiocrazia e Quesnay e gli altri come fisiocrati; per inciso secondo Marx e Leontieff, il vero iniziatore della scienza economica sarebbe stato proprio Quesnay e non Adam Smith.

Anno domini 1770: torniamo a Villa Saletta; lo stemma araldico apposto sugli edifici, la chiave posta in palo cioe’ in verticale, ci riporta alla famiglia Riccardi di Firenze, all’epoca una delle famiglie, da generazioni, piu’ ricche della citta’, proprietaria, tra molti altri, del palazzo gia’ Medici in via Cavour, oggi sede della provincia. In quegli anni il marchese suddecano Gabriello Riccardi abitava proprio nel mezzanino di quel palazzo e dalla divisione ereditaria con i fratelli, era divenuto proprietario anche della tenuta avita di Villa Saletta.
Qualche anno prima ,nel 1753 a Firenze veniva fondata l’Accademia dei Georgofili per la ricerca e l’innovazione in agronomia.
Nel 1765 si insediava sul trono granducale di Toscana Pietro Leopoldo di Lorena, il quale da vero principe dell’eta’ dei lumi e al fine di realizzare il suo vasto programma di riforme imprimeva un grande impulso all’accademia e alle nuove idee in agronomia.
Così il viandante che si inoltrasse nel borgo–fattoria potrebbe vedere solo un posto disabitato e abbandonato molto “pittoresco”; ma con grande meraviglia, potrebbe anche riuscire ad ammirare i criteri di costruzione degli edifici e la razionalità di distribuzione degli spazi interni delle abitazioni destinate ai contadini, in confronto alle casupole che erano comune abitazione allora per i mezzadri e i lavoranti agricoli; basterebbe vedere e confrontare con il vicino borgo di Toiano.
Questi edifici, che insistono lungo la strada che attraversa il borgo, sono ben elevati fuori terra e tutto lascia pensare che la loro costruzione abbia seguito un piano urbanistico ben determinato; gli stipiti delle porte e delle finestre sono, in tutte le abitazioni, in pietra di grossa sezione e tutto il complesso non sfigura rispetto alla villa nobiliare , agli altri edifici e alle due chiese.
All’interno, a pian terreno, si trova immediatamente la stalla, secondo il principio per cui il calore animale salendo aiuta a riscaldare le stanze superiori; sotto il piano stradale vi sono altri spazi sembra per animali di piccola taglia e infine scendendo ancora scavata nel tufo una cantina/grotta: potrebbe essere la riutilizzazione di una tomba etrusca, di cui si sono trovate tracce nei poggi circostanti.
Al primo piano vi è un grande cucina con un enorme focolare che permette a diverse persone di sedere a riscaldarsi entro il camino stesso , attrezzato con diversi fornelli a carbonella per la cottura delle vivande; un grande acquaio e diversi armadietti a muro con ante; vi sono poi diversi altri ambienti, ampi e spaziosi anche in altezza e tra due di questi,che probabilmente erano adibiti a camere – udite udite! – il cesso. Nel 1770 in una casa di contadini c’era il cesso!!
Al secondo piano un ulteriore ambiente con armadietti a muro chiusi da ante.
Per capire l’eccezionalità della presenza del cesso basta far presente che sino all’immediato secondo dopoguerra, anni 50/60 del ‘900, nella quasi totalità delle case rurali esso si trovava fuori dell’abitazione.

L’investimento di capitale, notevolissimo, che il marchese suddecano Gabriello Riccardi realizzò a Villa Saletta aveva certamente lo scopo di razionalizzare e incrementare la produzione agricola della tenuta da lui ereditata e con cio’ il patrimonio di famiglia, ma tutto questo fu probabilmente realizzato nella visione e nella convinzione che tutti i fattori della produzione tra cui la forza lavoro, debbano partecipare dei benefici del surplus,per lavorare con piu’conpartecipazione; altrimenti non si spiegno le abitazioni cosi’ inusuali rispetto agli usi del tempo e in confronto ai tanti borghi fattoria similari, sparsi nel contado toscano.

Questo episodio urbanistico e’ cosi’ inusuale e particolare che richiama alla mente situazioni lontane nel tempo e nello spazio:in Germania e precisamente ad Augusta in Baviera c’e tutt’oggi la “ fuggerai” , villaggio conchiuso che i banchieri Fugger costruirono per gli operai dei loro stabilimenti nel 1521.
Insomma Villa Saletta e’ solo un borgo-fattoria abbandonato e disabitato, in procinto tra l’altro di diventare una lussuosa spa-albergo ,oppure e’ la reificazione, la realizzazione in pietra e laterizio delle idee dei fisiocrati e dei Georgofili ?
Il punto interrogativo ha la funzione di stimolare il viaggiatore curioso ad una visita ed a un esame personale.

Il “Monte dei cocci” di Firenze

“Monte de’ cocci” è la dicitura che individua il famoso quartiere di Testaccio, a Roma, richiamando alla memoria la sua antica funzione di discarica, appunto, di cocci, vasellame, laterizio e materiali consimili. Nel tempo, il “montarozzo” di materiali misti, ricoperto di terra, è diventato una vera e propria collinetta alta un trentina di metri. Il titolo di questo articolo sottolinea che anche la città di Firenze è provvista del suo “monte dei cocci”, la cui genesi è quasi identica a quella del più noto Monte Testaccio di Roma.

Passerella della Montagnola all'Isolotto

La passerella che, scavalcando via de’Mortuli, consente l’accesso alla Montagnola, il “Monte dei cocci” fiorentino

Si tratta della cosiddetta “Montagnola” dell’Isolotto, compresa fra via de’ Mortuli, il lungarno prospiciente le Cascine e via del Sansovino. La sua natura di curiosa ondulazione del territorio, all’interno di un quartiere urbano, come l’Isolotto, perfettamente piatto, si desume facilmente anche dalla veduta aerea che si ottiene consultando, per esempio, Google Maps: il monticello artificiale è infatti racchiuso nel perimetro ovale disegnato da via Giovanni da Montorsoli.

Se non bastasse il nome significativo di “Montagnola” a far risaltare le affinità di questo piccolo rilievo urbano con l’omologo romano, basterà ricordare che anche la formazione di questa collinetta artificiale consegue alla prossimità di un porto fluviale: così come il Testaccio si è formato nel tempo dall’accumulo dei cocci di anfore olearie che sbarcavano all’Emporium sul Tevere, anche la Montagnola deve la sua origine ai rifiuti dell’attività commerciale del porto fluviale del Pignone.

Cambiano naturalmente i tempi in cui si formano i due “monti dei cocci”: quello della Montagnola è infatti posteriore di 2000 anni alla formazione del Testaccio, in quanto le prime attività di scarico e accumulo di materiali legate al porto fluviale del Pignone risalgono al XIX secolo. Il grosso dell’accumulo di rifiuti e materiali nella Montagnola si è avuto però nel ‘900, a seguito delle attività di costruzione del quartiere dell’Isolotto: in quest’area sorgeva infatti il deposito della Nettezza Urbana di via de’ Mortuli, dove confluivano i residui dell’attività edilizia e industriale che iniziava a fervere in quella zona di Firenze che era stata lunghi secoli aperta campagna.

Oggi il curioso rilievo è sottolineato anche da una passerella che scavalca via de’ Mortuli consentendo di accedere dal piano stradale alla sommità della Montagnola, sopra cui sorge oggi l’Istituto Comprensivo “Montagnola-Gramsci”, con annesse palestre di cui una dedicata alla pratica del pugilato.

Firenze in realtà possiede anche un altro “monte dei cocci”, ben più famoso della Montagnola: si tratta della collinetta del Cimitero degli Inglesi, nata dall’accumulo degli scarti della produzione di laterizio. Il piccolo rilievo che oggi campeggia al centro di Piazzale Donatello, infatti, nasce come discarica dei detriti che venivano accumulati in questa zona, all’epoca appena fuori da Porta a Pinti. I materiali di scarto accumulati qui provenivano dagli opifici posti subito all’interno delle mura cittadine, come testimonia la sopravvivenza di alcuni toponimi molto significativi, quale l’eloquente “via della Mattonaia”.

La confraternita dei “ciccialardoni” di Monte Oliveto

Facciata della chiesa di San Bartolomeo a Monteoliveto

Facciata della chiesa di San Bartolomeo a Monteoliveto, che sorse sul luogo dell’antica cappella di Santa Maria al Castagno dei “ciccialardoni”

L’antico ex-complesso monastico di San Bartolomeo a Monte Oliveto prende il nome dalla trecentesca fondazione, dovuta secondo le cronache ad un monaco proveniente dalla celeberrima Abbazia di Monte Oliveto Maggiore, in provincia di Siena, che fu madre e centro d’irraggiamento della congregazione olivetana.Il Monte Oliveto di Firenze viene oggi in considerazione a motivo di una confraternita, che qui si riuniva, dal nome singolarissimo e difficilmente spiegabile, e dunque ipso facto, curioso: la confraternita dei “Ciccialardoni”.

Ho già rammentato, in un apposito articolo, la peculiarità dell’Abbazia di San Bartolomeo in Forculise, detta del “Buonsollazzo”, per sottolineare come tale dicitura facesse erroneamente pensare ad una congrega di “frati gaudenti”. Allo stesso modo, la parola “ciccialardoni” dà a tutta prima l’idea di personaggi dediti a tutt’altro che ad attività pie e caritatevoli; anche in questo caso però c’è, o quantomeno sembra esserci, il suo “perchè”.

All’inizio della storia del Monte Oliveto di Firenze c’è un piccolo oratorio. I Bostichi nel 1294 donano alla Compagnia Maggiore della Beata Vergine una cappella, dedicata a Santa Maria al Castagno, frequentata da una confraternita di mercanti e artefici fiorentini che vi si riunivano l’ultima domenica del mese. Sono questi i “ciccialardoni” che, nel 1334, donano il luogo all’abate olivetano Bernardo Tolomei.

La confraternita detta dei “ciccialardoni” si chiamava, prima di venir trasfigurata nel motto popolare, “Compagnia della Purificazione di Maria Vergine”. Nel X volume del Bollettino Senese di storia patria, redatto dall'”Accademia dei Rozzi”, si legge in proposito che, fin dal 1297, solevano radunarsi “alquante divote e spirituali persone, mercatanti ed artefici per fuggire l’ ozio e gli cattivi e disonesti esercizi, come innamorati di messer Giesù Christo pigliando per avvocata la madre gratiosa di nostro Signor G. C. della sua SS. Purificazione“. Guida spirituale dei confratelli sembra essere stato un tale Maso, un romito che abitava su quel monticello, detto all’epoca “Monte di Bene”, presso il suddetto romitorio della Madonna al Castagno.

Il 26 agosto dello stesso anno, un tal Corteccione di Giovanni Rustici donava a Giovanni di Lippo Antinori, per gli uomini di questa Compagnia, un pezzo di terra, con l’oratorio di S. Maria del Castagno, i portici e tre celle. La confraternita, come accennato, effettua il 1° maggio 1334 la donazione dell’oratorio, con tutte le sue pertinenze (“cum resedio, vineis, ortibus et arboribus”) a Frate Innocenzo di ser Domenico da Torrita, monaco e procuratore di Monteoliveto, a patto che gli olivetani accettino le condizioni poste dalla confraternita.

In base al contratto di donazione si pattuiva infatti, in favore della confraternita dei “ciccialardoni” che “rimanessero a S. M. del Castagno almeno due monaci di Montoliveto, l’ uno dei quali fosse sacerdote; vi celebrassero gli offici divini; potessero i Ciccialardoni accedere all’oratorio, come per l’ addietro, giusta i capitoli della Società e tenerne le chiavi : niuna mutazione a’ capitoli potessero farsi senza consenso d’ ambe le parti, cioè della società e de’ monaci : restasse fermo il numero di venticinque pei confratelli della società, e chi avesse cella, vi potesse abitare; ne’ giorni di radunanza, vi potessero cuocere il pranzo o la cena, ed i monaci dovessero loro fornire il vino necessario : contradicendosi l’accesso al luogo suddetto e vietando l’abate le radunanze, fosse nulla la donazione”.

Il Repetti, nel suo monumentale Dizionario Geografico etc., avanza l’ipotesi che il nome di “ciccialardoni” venisse loro affibbiato perchè, complice l’amenità del luogo, i confratelli sfruttavano le periodiche riunioni “per trattenersi a diporto”. In pratica la riunione della confraternita finiva sempre “in gloria”, con un bel pranzo fra amici che equivale all’odierna scampagnata fuori porta della domenica: si legge infatti nelle clausole allegate alla donazione, sopra riportate: “ne’ giorni di radunanza, vi potessero cuocere il pranzo o la cena“.

L’ipotesi non è inverosimile, ma che questi pranzi o cene fossero all’origine del nomignolo, a detta dello stesso Repetti, scaturisce dalla medesima denominazione che si cerca di spiegare. Più accurato e degno di fede mi sembra in proposito il Lumachi, che nel suo Firenze: nuova guida illustrata del 1935 ricorda che i Ciccialardoni continuarono a riunirsi sul Monte Oliveto per i loro banchetti, senza soluzione di continuità, fino alla prima metà del XVIII secolo. E’ in questo frangente che evidenzia il costume di far accomodare, alle tavole allestite nel chiostro del convento, i semplici abitanti della zona circostante.

In quest’ottica, i “banchetti” dei Ciccialardoni assumono il loro più verosimile valore di condivisione gioviale delle buone vivande dei confratelli con contadini e rustici che non potevano permettersi altrettali mense e che quindi, una volta al mese, venivano allietati in questa guisa. Da ricordare in proposito come una delle più ricorrenti e (sostanziose) opere di bene che le confraternite nate nel medioevo si assegnavano, era proprio quella di assistere, beneficare e recare sollievo agli abitanti che insistevano nel territorio circostante la sede di ciascuna compagnia di fratelli laici.

Dopodichè, non c’è niente di più facile che i fiorentini, strafottenti al loro solito, abbiano affibbiato alla compagnia il nomignolo di “Ciccialardoni” a sottolineare la giovialità enogastronomica che questi fratelli laici, a differenza dei chierici, usavano praticare anche nel fare opera di carità.